È il ritorno di un amico molto amato, un dolce e scapestrato «storyteller» dagli occhi color del mare e dai riccioli ribelli... È il ritorno di John Martyn. Ne siamo ancor più felici perché questa volta si tratta della fine di un periodo oscuro cominciato con Glorious Fool e proseguito con lo scialbo Well Kept Secret, un insuccesso dettato forse dal desiderio mai sopito di uscire dal limbo dello scarso rendimento commerciale. Phil Collins, che pure è produttore dalla personalità fin troppo spiccata, si era dimostrato molto più rispettoso di Sandy Roberton nei confronti delle fragili creature di John. Ma in fondo non è neppure giusto attribuire sempre e soltanto a chi produce le colpe e le responsabilità dei fallimenti: tutti gli artisti attraversano momenti più o meno felici. L'importante è superarli e ritrovare la via per esprimersi pienamente con la propria musica. E se è vero che le canzoni di John Martyn sono «diari di fatti accaduti a me e ai miei amici», come egli stesso le ha definite, è altrettanto innegabile che in questi frammenti di vita è molto facile ritrovarsi e rispecchiarsi. L'ascolto di un disco o la partecipazione ad un concerto possono così diventare episodi importanti. Scatta preciso il meccanismo dell'identificazione quando l'emozione di chi canta o suona è reale e sincera. Di John Martyn mi piace proprio l'approccio viscerale e diretto con la musica e i versi. La sua visione dell'amore, nello stesso tempo terreno e universale, in parte mutuata da quella più pura e ideale del suo «maestro» John Coltrane, è delineata con una forza inusitata, con l'uso ossessivo e insistente della parola «love», sussurrata, scandita, dilatata.
È una questione di temperamento, certamente. Ma è anche e soprattutto un'eredità, un patrimonio comune a quasi tutti i poeti e musicisti scozzesi. È la stessa sensualità che faceva scrivere a Robert Burns «il mio amore è come una rosa rossa, ch'è da poco sbocciata in giugno: il mio amore è come una melodia che è dolcemente e armoniosamente suonata».
È quel qualcosa di indefinibile che lega strettamente tutti gli elementi del suo stile, folk, blues, jazz, echi di musica africana, in una sonorità unica e inconfondibile; quel qualcosa riposto nelle trame della sua voce roca, quel qualcosa che ha molto a che fare con la magia e che, come la magia, è assolutamente inafferrabile.
«Philentropy» è oltretutto inciso dal vivo, nel tentativo di rendere il respiro della gente, di allontanare l'anonimato di uno studio di registrazione. È dal vivo che le canzoni più vecchie riprendono forma e vigore diventando veicolo di ricordi e sensazioni che si credevano dimenticate o perdute per sempre. A contatto diretto con il suo pubblico più fedele, John Martyn ha ricreato le stesse atmosfere di un tempo arricchendole con le nuove esperienze, rendendole forse meno eccitanti, ma sicuramente ancora più rarefatte e commoventi.
Mi sembra un buon punto di partenza per nuove avventure nelle regioni più inesplorate e segrete del cuore.
Le musica è ancora fatta di melodie e armonie struggenti, suscita emozioni, corre diritta all'anima a smuovere memorie impolverate dal tempo e negate dal dolore, è energia, scivola sicura tra le suggestioni della voce e le note colorate della chitarra.
Un grazie all'amico molto amato, all'eterno fanciullo dagli occhi color del mare e dai riccioli ribelli... è ancora quello che noi tutti vorremmo essere.
Giancarlo Susanna
sitenotes:
Funnily they included a picture of the back cover of the album.
This review was published in the Albums section of Il Mucchio Selvaggio | Mensile di Musica e Cultura Rock, issue 73, page 48 and 49. The issue featured David Bowie on the cover and originally cost 3.000 lire.
Il Mucchio Selvaggio was a Rome based magazine that existed from October 1977 through June 2018. In 1980 part of the staff took off to start Il Buscadero.