Con la pubblicazione nel novembre 2005 delle ristampe rimasterizzate dei primi album di John Martyn, quelli del fertile periodo Island, la Universal finalmente recupera e ripropone gli splendidi frutti artistici dei primi anni del cantautore e musicista inglese, aggiungendo alla limpida brillantezza sonora di un'accurata rimasterizzazione digitale una messe di bonus track mai pubblicata prima d'ora.
Gli album in questione sono la discografia cronologica solista dall'esordio al 1975, vale a dire London Conversation (1967), The Tumbler (1968), Bless The Weather (1971), Inside Out (1973) e Sunday's Child (1975). Nel 2002 era già stato ripubblicato Solid Air (1973), il suo disco forse più noto, mentre i due album in collaborazione con la moglie Beverley -Stormbringer (1969) e The Road To Ruin (1970)- anche questi in versione rimasterizzata e integrata da altre bonus track, sono stati pubblicati lo scorso ottobre. Con questa cinquina di CD viene così completata la prima parte della lunga carriera di Martyn, il periodo 1967-1975, per molti estimatori il più valido e duraturo.
POCHI INTERROGATIVI PRELIMINARI
Confesso che fa un po' effetto calcolare in senso temporale che sono passati quasi quarant'anni da London Conversation, sulla copertina del quale un diciannovenne John Martyn si presentava appollaiato con chitarra su un tipico tetto londinese tra una fila di camini. Sunday's Child, l'ultimo della cinquina 'Remastered & Expanded' in oggetto ha trent'anni esatti. Un'età più che matura. Per forza di cose sorgono spontanee un paio di domande. La prima è senz'altro perché la Universal ci abbia messo così tanto a compiere questa doverosa operazione di recupero. Non sarebbe stato più opportuno e più proficuo immettere queste opere sul mercato almeno dieci anni fa? Non ci avevano detto che la tecnologia digitale aveva già raggiunto la perfezione nel 1990? E se il target commerciale è il musicomane collezionista un po' nostalgico e anagraficamente oltre la cinquantina, la seconda domanda è: ha ancora senso per i giovani d'oggi l'ascolto dei grandi cantautori menestrelli degli anni Settanta? Ci sono ancora orecchi attenti? È ancora valida, oggi, questa musica? Per qualcuno sicuramente sì, ma quanto incide una minoranza risicata sui grandi profitti auspicati dalle immense major? Ci sarebbe da aggiungere che, per completare l'opera, le case discografiche dovrebbero spingere sulle radio (come fanno ossessivamente con certe nuove canzoni e certi nuovi artisti) anche qualche brano tratto da questi ripescaggi d'autore, tanto per provare ad ampliare i gusti degli ascoltatori giovani e attirare nuovi estimatori (e acquirenti). Cosa che regolarmente non avviene mai. Al che ci si chiede allora dove sia il senso commerciale dell'operazione. I grandi manager delle multinazionali discografiche sanno fare il loro mestiere oppure no? Perché ripubblicare preziose perle musicali e non passarle mai in radio? Al lettore le ardue considerazioni.
ALCUNI CENNI BIOGRAFICI
Chi, come me, ha amato John Martyn, e in particolare il John Martyn del primo periodo, sa di cosa parlo. Una chitarra acustica arpeggiata con sufficiente abilità per accompagnare una voce dal timbro unico che disegna magistralmente le melodie un po' folk degli inizi e dipana le sinuosità sonore un po' jazz dei seguiti. Un percorso artistico esemplare e un'evoluzione musicale continua da un album all'altro -cosa che non è da tutti- per arrivare con il passare degli anni a essere addirittura indefinibile come stile e genere. Folk, blues, jazz, rock, funk, reggae, trip-hop: come definire, oggi, John Martyn?
Sicuramente all'inizio l'influenza folk era evidente, se non altro nella scarna presentazione degli arrangiamenti, specie in London Conversation, un album quasi esclusivamente di chitarra acustica e voce, caratterizzato dal punto di vista strettamente musicale da una certa vena alla Davey Graham -stimato epigono dei chitarristi 'trasversali'- e da una dolce malinconia da street singer vagabondo florida di incanti, soprattutto sul versante delle melodie originali. Tangenzialmente folk.
Nato a New Malden, nel Surrey, l'11 settembre 1948, figlio unico di due cantanti d'opera, lain David McGeachy -questo il vero nome- cresce con il padre, separatosi dalla moglie quando lain ha solo cinque anni, e la nonna paterna a Glasgow, in Scozia, dove verso i quindici anni si avvicina all'ambiente folk e alla chitarra. Muove i primi passi nei folk club della zona sotto le ali di Hamish Imlach, un affabile cantante e chitarrista blues di ottima reputazione che lo incoraggia a suonare e gli fa conoscere vari generi musicali. La gavetta ricalca il solito cliché: le prime esibizioni avvengono nei music pub di Glasgow, dove lain affina la sua tecnica vocale e chitarristica e conosce altri artisti che contribuiscono ad ampliare il suo repertorio, fondamentalmente folk e blues. Verso i diciassette anni fa amicizia con Clive Palmer, titolare del Clive's Incredible Folk Club di Sauchiehall Street, a Glasgow, abile suonatore di banjo e fondatore nel 1965 con Robin Williamson della Incredible String Band. lain e Clive condividono lo stesso appartamento e si esibiscono nel circuito dei pub e dei folk club cittadini. Qualche mese dopo andranno ad abitare insieme in campagna in un isolato cottage semidiroccato, privo di impianto elettrico e di acqua corrente. Ricorda John: «Suonavamo tutto il giorno. Uscivi dalla porta e non c'era niente. Solo la brughiera. E una piccola sorgente per l'acqua che ti occorreva. Bei tempi».
Acquisita una certa fama nel circuito dei locali folk scozzesi, a diciotto anni lain decide di trasferirsi a Londra. La scena musicale della capitale inglese è in pieno rigoglio, con una quantità di nuovi locali in cui suonare e farsi conoscere. Su suggerimento del suo primo agente, Sandy Glennon, lain cambia nome in John Martyn, adottando quello della nota marca di chitarre acustiche americana, a cui cambia semplicemente la 'i' in 'y'.
Comincia a esibirsi regolarmente nei folk club londinesi, come il Les Cousins di Greek Street, il Bunjie's, e il Folk Barge di Kingston, il famoso pub su una chiatta fluviale in cui mossero i primi passi tanti folk singer inglesi, tra cui Bert Jansch, Al Stewart, John Renbourn e Jacqui McShee. È proprio al Folk Barge che John incontra la persona giusta, un certo Theo Johnson, che gli fa incidere un 45 giri demo di due canzoni da sottoporre all'attenzione di Chris Blackwell, fondatore della Island Records giamaicana nel 1959. John Martyn è storicamente il primo artista bianco a firmare un contratto con la nota etichetta di colore.
LONDON CONVERSATION
Il primo album, una raccolta di dodici canzoni incise in mono, viene pubblicato nell'ottobre 1967, quando John ha appena compiuto diciannove anni. È lo stesso Theo Johnson a produrre il disco, con la supervisione di Chris Blackwell. Come già detto, l'album rientra in gran parte nella tradizione folk degli anni Sessanta, anche se contemporaneo, ed è composto da eccellenti testi e da diverse belle melodie sviluppate fondamentalmente su una base di chitarra acustica. Contiene anche una prima e parca strumentazione di gusto jazzy, come il sitar e il flauto in Rolling Home. Pur così giovane, la voce di John è già calda ed espressiva, e risulta subito ammaliante fin dalle prime note dell'iniziale, magica, Fairy Tale Lullaby. Nella sua semplicità, l'album abbonda di incanti, sia lirici che melodici, e patisce forse solo per la brevità delle composizioni, la maggior parte delle quali calcolate sui canonici due minuti e mezzo della forma-canzone in voga negli anni Sessanta. Brani come Sandy Grey, Ballad Of An Elder Woman (con un cantato già da brividi), London Conversation e Golden Girl rendono omaggio all'epica e breve stagione del folk britannico più innocente e puro, all'epoca incarnata soprattutto da un Donovan menestrello ai primi passi che esprimeva su una chitarra solitaria la poesia contagiosa di un'ingenua giovinezza purtroppo svanita in fretta. Appunti di viaggio, osservazioni contemplative, piccole storie di amicizia sincera sono ciò di cui John canta. L'amore fa naturalmente capolino nei brani più dolci, come la bellissima Back To Stay o la già citata Fairy Tale Lullaby, due vertici dell'album, non a caso ad apertura delle due facciate originali. Le radici folk più nobili sono dichiarate dalla presenza di Cocaine, classico brano dei circuiti folk di sempre, e da una commovente interpretazione di Don't Think Twice It's Alright, sentito omaggio al maestro di tutti, Bob Dylan. La magnifica sorpresa di questa edizione rimasterizzata è una bonus track aggiunta che vale da sola il riacquisto del CD da parte di chi, come me, è ancora affezionato all'album in vinile originale (ancora perfetto nonostante gli anni). Si tratta di una splendida versione del tradizionale inglese She Moved Through The Fair, un brano inciso nelle sessioni originali e poi escluso dall'album, reso con un pathos irripetibile. Solo Sandy Denny, forse, in seguito riuscì a far meglio, con il supporto dei Fairport Convention. Peccato che i curatori della ristampa non abbiano scoperto altre gemme perdute con una caratura simile.
THE TUMBLER
Un anno dopo, nel dicembre 1968, esce il secondo album. Pur mantenendo l'atmosfera folk dell'esordio, il nuovo disco costituisce già una notevole evoluzione strumentale e vocale. Gli arrangiamenti sono decisamente migliorati e la gamma melodica della voce è più ampia. Album ancora magnificamente acustico, risulta più influenzato dai bluesmen neri amati da John, specie Robert Johnson e Skip James. Alla chitarra di Martyn si aggiunge una seconda chitarra, quella di Paul Wheeler, compare il basso di Dave Moses e soprattutto il flauto di Harold McNair. Prodotto dall'amico Al Stewart, The Tumbler rivela i primi accostamenti al jazz e le due facce dell'artista: una più dolce e pacata, melodicamente folk, e un'altra più oscura e selvaggia, dannatamente blues. Una dicotomia che Martyn svilupperà ulteriormente negli anni e negli album a seguire. Fanno inoltre la loro prima comparsa certi effetti come il fuzz-box e il phase-shifter, che alterano il suono della chitarra acustica, come per esempio in Hello Train (già nel terzo album, Stormbringer, compariranno anche i primi esperimenti con il wah wah, i tape loop e l'echoplex applicati alla chitarra acustica). Chi ama il Martyn folksinger si lascia per sempre ammaliare dalle malinconiche dolcezze di The River o dell'incomparabile Dusty, impreziosite dagli interventi del flauto di McNair, o dalla spensierata allegria folkie di Sing A Song Of Summer, con il suo arpeggio scatenato, del tradizionale americano Fishin' Blues cantato in coro, o dagli scioglilingua di Knuckledy Crunch And Slippledee-Slee Song. Chi invece ama il Martyn introverso e cupo trova fascini inconsueti nelle evoluzioni ipnotiche dell'orientaleggiante The Gardeners, negli arpeggi chitarristici della strumentale A Day At The Sea o nell'incalzante bottleneck blues di Going Down To Memphis. A volte Martyn miscela i suoi stati d'animo altalenanti, come nel crossover di Fly On Home o nell'idiosincrasia musicale di Seven Black Roses. Il risultato generale, è comunque eccellente, e l'album è a mio parere uno dei più validi dell'artista. Nessuna bonus track è stata aggiunta alla nuova versione rimasterizzata in CD.
BLESS THE WEATHER
Dopo i due album in collaborazione con la moglie Beverley nel '69 e nel '70, i dirigenti della Island e in particolare il produttore Joe Boyd insistono perché John riprenda la carriera solista. Seppure a malincuore Martyn accetta e il nuovo album esce nel 1971, dopo soli tre giorni di incisioni in studio al Sound Techniques di Chelsea. Ad aiutare John c'è il contrabbassista Danny Thompson (membro dei Pentangle), che accentua la rifinitura jazz in tutto l'album e da questo momento in poi sarà per anni un collaboratore fisso di Martyn. Al disco contribuiscono in vario modo anche Richard Thompson, Tony Reeves dei Colosseum, lan Whiteman e Roger Powell dei Mighty Baby. Ancora una volta, la tavolozza strumentale si amplia e diversifica, aggiungendo i 'colori' tonali delle percussioni, delle marimba, del pianoforte, mentre l'uso della voce da parte dell'artista diventa sempre più 'strumentale', senza le esagerazioni da orco masticaparole degli album successivi. Le melodie sono semplici, limpide, ben cantate. Il risultato è l'album più puro e innocente, pacato e rilassante che Martyn avrebbe potuto realizzare. Evidentemente un riflesso del periodo felice e pacifico vissuto all'epoca ad Hastings con la moglie. Go Easy, Bless The Weather, Walk On The Water, Head And Heart sono l'incantevole risposta ai fan che aspettavano un ritorno in bellezza del loro beniamino. Nella splendida Just Now, contrappuntata da un pianoforte cristallino, Martyn ci prende per mano con la sua carica umana più tranquilla e in pace col mondo. Nel blues ritmato di Sugar Lump ci fa muovere le gambe, mentre nelle riflessive Let The Good Things Come e Back Down The River (addirittura commovente nella sua bellezza) ci affascina e avvince definitivamente dal punto di vista emotivo. Gli echi folk sono ancora vivi, le coloriture jazz sono evidenti seppure contenute, e la magia si ripete con un album capolavoro. C'è spazio anche per le svisate: l'improvvisazione e gli effetti ipnotici dell'echoplex nel lungo brano strumentale Glistening Glyndebourne, jazzatissimo e serrato, da palcoscenico, o la nostalgia romantica di Singin' In The Rain, il vecchio brano tratto dall'omonimo film. La versione rimasterizzata propone ben sette bonus tracks in più: cinque versioni alternative tratte dalle sessioni originali in studio di cinque brani poi inseriti nell'album, una versione 'con gruppo' di Head And Heart che oltrepassa i dieci minuti e si dilunga in una jazz jam da ore piccole, e infine la versione originale della ben nota May You Never pubblicata come singolo nel 1971 (con tanto di sassofono!) prima della sua inclusione, in forma semplicemente acustica e senza gruppo, nel successivo Solid Air del 1973.
INSIDE OUT
Dopo l'apice artistico di Solid Air, Martyn si produce verso la fine dello stesso anno -il 1973- nel suo album più sperimentale, a tratti ostico, il più eclettico e scioccante per i fedeli dell'epoca. L'echoplex e i vari effetti loop hanno preso il sopravvento, i testi sono ridotti al minimo, l'ansia da musicista prevale stilisticamente sul cantautore classico. È un album di sfogo creativo ed eccentrico, ricco di una tecnica chitarristica raffinatissima, che tende all'ipnotico. Il fedele Danny Thompson emerge sempre con il suo contrabbasso alla Charles Mingus laddove John prevede che emerga, e l'effetto generale è di grande coinvolgimento emotivo e strumentale. Anche la voce di Martyn viene usata in modo massiccio come strumento, con i vocalizzi, le frasi ripetute ad libitum e le parole 'allungate' secondo la tradizione del canto jazz. L'accostamento all'americano Tim Buckley è ciò che viene in mente a molti. Il distacco dal genere folk è netto e Inside Out si propone come un punto di svolta decisivo. Più che la melodia, è la musicalità di certe soluzioni strumentali a interessare l'artista. Fine Lines, Ouside In, Ain't No Saint, The Glory Of Love sono i nuovi cavalli di battaglia da domare sul palco, brani cangianti e a più soluzioni nei quali il menestrello di un tempo non è più solo, ma è al centro della scena e della regia di un vero e proprio gruppo jazz, circondato dai suoi supporti tecnologici. Inevitabilmente, le composizioni si fanno più ripetitive, i giri di accordi più stabili, le armonie meno brillanti. C'è una parola che ricorre più e più volte in tutto l'album: cantata, evocata, modulata, strapazzata, invocata, ululata. È 'love', che si ripete e rincorre da un brano all'altro, affonda e riemerge prima e dopo che gli strumenti hanno jammato il loro free-form jazz introspettivo, involutivo, e che lascia nell'ascoltatore il dubbio reale che qualcosa, nella vita privata di John Martyn, si sia incrinato. Ben lungi dall'essere un album da scartare a priori, Inside Out si fregia della nobile presenza di blasonati colleghi di Martyn come Steve Winwood (tastiere) e Chris Wood (sassofono) dei Traffic, Remi Kabaka (percussioni) e altri. È territorio jazz, suonato dal vivo in studio a notte fonda.
La versione rimasterizzata in CD presenta quattro brani dell'album suonati in due diverse BBC sessions dell'epoca, una in ottobre 1973 (Beverley/ Make No Mistake, Fine Lines ed Eibhli Ghail Chiuin Ni Cherbhail) e l'altra addirittura a marzo dello stesso anno, con una bella anticipazione di Outside In.
SUNDAY'S CHILD
Nell'agosto 1974 John Martyn torna in sala di registrazione agli Island Studios di Hammersmith per incidere il nuovo album. Come di consueto, le sessioni sono brevi e intense, ma l'esito finale è all'altezza delle aspettative. Sunday's Child viene pubblicato nel gennaio 1975. Questa volta le canzoni presentano un contrasto più accentuato che in passato tra generi diversi: un certo rock elettrificato e scattante (l'iniziale One Day Without You, di facile presa radiofonica), il rock duro e avant-garde di Root Love, il rock'n'roll classico di Clutches, il popjazz di My Baby Girl (parte Nick Drake, parte Supremes, dedicata alla figlioletta Mhairi, con l'ultima partecipazione della moglie Beverley ai cori), il jazz pre-jonimitchelliano di Sunday's Child e di The Message, e un folk di maniera che riemerge pacato nelle composizioni più lente, come la breve Lay It All Down e la riflessiva You Can Discover (con un giro di accordi e un'atmosfera ormai sedimentati canonicamente nell'opera del cantautore). Riappare il folk tradizionale nella magnifica Spencer The Rover, dedicata al figlioletto Spenser. C'è perfino la sorpresa del country lento e jazzato di Satisfied Mind. Ma non si tratta di sperimentazioni: le canzoni hanno una struttura precisa, e lo spazio dato all'improvvisazione (come nel controverso Inside Out) è ridotto ai minimi termini. Solo nella velenosa Root Love e nella conclusiva Call Me Crazy, sette minuti e mezzo di soft jazz ipnotico e cerebrale, riemerge l'approccio strumentale e vocale (parzialmente free) del recente passato. Per l'album, Martyn è coadiuvato in studio dal fido Danny Thompson al contrabbasso, da John 'Rabbit' Bundrick al pianoforte, da Liam Genockey alla batteria e dall'indiano Kesh Sathie alle tabla. Altri contributi sono forniti da Terry Wilson, Al Anderson e Tony Braunagel. L'edizione rimasterizzata aggiunge all'album originale diverse bonus tracks davvero imperdibili. La prima è Ellie Rhee, un bellissimo brano acustico di gusto folk mai pubblicato prima d'ora che pare uscito dalle sessions di London Conversation e che sarebbe stato benissimo su Sunday's Child (ma fu scartato). La seconda bonus track è una versione alternativa di Satisfied Mind che rivaleggia con quella ufficiale apparsa sull'album in forma più delicatamente country. Qui aveva un gusto più honky-tonk e immediato. Seguono poi cinque brani dell'album come furono eseguiti in una pulita versione acustica dal cantautore in una fulgida John Peel Session realizzata negli studi di Maida Vale il 7 gennaio 1975 per promuovere il disco. Spogliati della strumentazione adottata per l'album, i brani acquistano un fascino assoluto. La versione di One Day Without You solo voce e chitarra lascia a bocca aperta per l'emozione che comunica. In You Can Discover, in My Baby Girl e in The Message (anche queste solo acustiche) Martyn si avvicina al pathos malinconico e irresistibile dell'amico Nick Drake, soprattutto nella voce, mentre nella conclusiva Spencer The Rover riesce perfino ad aggiungere qualcosa alla versione pubblicata sull'album. Una John Peel Session veramente eccezionale, che possiamo ascoltare su questo CD nella sua interezza come fu trasmessa su BBC Radio One il 13 gennaio di quell'ormai remoto 1975.
sitenotes:
This article was the cover story and the original copy of Late For The Sky cost 5 euro. Several spelling mistakes have been corrected.